Tiscali
La leggenda li vuole provenienti da Troia, compagni di Enea, sbattuti forse da una violenta tempesta sulle coste orientali sarde. Più tardi, non sentendosi sicuri, si ritirarono sempre più all'interno.
Pausania ci parla di questi compagni di Enea. Afferma che in Sardegna essi trovarono già dei Greci che vi si erano stabiliti precedentemente e con loro si allearono per combattere i protosardi che volevano respingerli.
E pare sia stato proprio il fiume Tirso che li separava, ad evitare lo scontro, poiché l'attraversarlo metteva paura ad entrambe le parti. Evidentemente il Tirso aveva una portata d'acqua assai maggiore di quella odierna. A quel tempo i fiumi sardi dovevano essere più ricchi d'acqua a causa del manto di foreste che ricopriva l'isola e delle frequenti precipitazioni. Ma si trattava proprio del Tirso o non piuttosto del Cedrino in piena, alimentato dalle impetuose acque del Gologone, che il Siotto Pintor definisce "spaventevole sorgiva"? Assai prima che gli Iliesi occupassero Tiscali, l'immensa grotta era già nota ai primitivi abitanti della zona. Lungo la parete calcarea, ad una certa altezza dal suolo, fu scoperta una specie di cella naturale in cui furono rinvenute alcune mascelle umane e residui di arti inferiori. Non fu però trovato nessun oggetto, fatto da mano d'uomo, che rivelasse qualche traccia di civiltà. La grotta fu certamente sede di cavernicoli, come lo fu la grotta "Rifugio", poco distante da "Su Gologone", ove fu scoperto il più antico stanziamento umano finora conosciuto in Sardegna. Risale a circa 5000 anni orsono.
A Tiscali non v'é traccia di tombe.
Forse la lotta quotidiana per la sopravvivenza aveva affievolito, riducendo alla semplice inumazione, quel culto dei morti tanto sentito dalle popolazioni nuragiche. O forse anche qui si praticava la barbara usanza cui accenna Timeo, cioè i vecchi padri inabili al lavoro, inutili bocche da sfamare, venivano uccisi dai figli? Zia Juvannedda, una vecchia di Oliena, mi racconta un'antica storia udita dal nonno, il quale a sua volta, l'aveva sentita dai suoi avi, che la facevano risalire a tempi assai remoti.
Quando i figli portavano i vecchi genitori in campagna e li abbandonavano lontano dall'abitato, davano loro il cibo necessario per alcuni giorni, dopo di che dovevano arrangiarsi. Prima del distacco, sia il padre sia i figli, si ubriacavano, forse per superare più agevolmente il momento critico. Un giovane portò sulle spalle il padre infermo verso la montagna. Poiché il vecchio pesava e la salita era ripida, percorso un buon tratto di strada, il giovane lo depose per terra e si riposò presso una grossa pietra.
"Anch'io quando portavo mio padre sulle spalle mi riposai su questa pietra!" esclamò il vecchio. Il figlio rifletté un istante e, considerando che anche a lui sarebbe toccata la medesima sorte, rabbrividì. Si caricò di nuovo il padre sulle spalle e lo riportò a casa. Da allora nessun vecchio fu più allontanato dal villaggio. Angelino Usai riporta un racconto che in Ogliastra si tramanda da secoli,(1) ove si parla di questa barbara consuetudine alla quale i vecchi, consenzienti perché così si era sempre fatto, non si ribellavano. E pare che proprio l'avvento del cristianesimo abbia modificato un simile modo di pensare già scomparso prima della dominazione romana in altre parti della Sardegna e che ancora persisteva nelle zone più isolate e povere dell'interno montagnoso. D'altronde non dovrebbe destare tanta meraviglia. Altri popoli facevano questo. In alcune tribù africane tale usanza persiste tuttora. Dice una vecchia canzone popolare nuorese, forse memore di antiche consuetudini
“S'omine cando est bezzu no est bonu,”
“e lu juchen in domo che istrazzia.”(2)
Testo di Dolores Turchi
Note
1. A. Usai, Il villaggio nuragico di Lanusei, Ed. Fossataro.
2. L'uomo quando è vecchio non è buono a nulla, e lo trattano in casa come uno straccio.
Data di ultima modifica: 09/02/2017